mercoledì 10 febbraio 2010

Crónicas muisneñas

(Ogni riferimento a persone, luoghi o fatti realmente esistenti o accaduti non ha niente di casuale. Si badi però che quanto segue è il frutto delle osservazioni elaborate dalla sottoscritta nel corso di una settimana un po’particolare e vacanziera, ragion per cui le percezioni potrebbero essere state alterate da tali, specifiche circostanze)


***

«Muisne», dice el Paòlo, «non fa rima».
«Muisne», risponde el Chili, «es una isla maldida».
«El Paòlo y el Chili», gli fa eco Carlito, «son los demonios de la isla, el blanco y el negro».

Muisne, dice la piccola Thaia, è più piccola di tutte le altre città che abbia mai visto, che sono Esmeraldas, Quito e Santo Domingo de los Colorados, «donde hay mas de todo».

A Muisne la scuola è interessante, si studiano l’inglese, la matematica e la religione, ma da grandi, Thaia e sua cugina vorranno fare la segreta
ria e la “licenciada” in una delle altre tre città che hanno già conosciuto e possibilmente a Quito, dove – è vero, non c’è il mare – ma è così grande e piena di cose che il mare gli fa un baffo. Anche in Avril vorrebbero andare, Thaia e sua cugina, ma non è che vogliano partire adesso, in primavera, alla veneranda età di 7 anni, no. Piuttosto, quella maledetta somiglianza tra Brazil e Avril le frega sempre.

A Muisne, in fondo alla strada che porta alla playa vivono un paio di curiosi aggregati di individui: un gruppetto di negroni rastafariani dal fisico scultoreo e l’occhio tipicamente “pio” del maschio latino, che vive nella consapevolezza della sua immane beltà e si muove a ritmo di reggaeton anche per andare a comprare il pane; e un altro pugno di giovani, decisamente più sbiaditi e meno bobmarleyschi, ma ugualmente carucci, che si nutrono tra le altre cose di strani alimenti dai nomi esotici: caciocavallo, ‘nduja, luganega. Nel pueblo, infine, stanno tutti gli altri muisneñi, gente tranquilla che lavorava, verrebbe da dire, anche se poi mettendo il naso negli affari di una delle poche oficinas locali, si scopre che forse sarebbe più appropriato intonare adagi d’altro tipo. Ma questa è un’altra storia e anche i diavoli abbiamo detto che sono altri, non stiamo qui a seminare zizzania.
Antropologicamente, comunque, Muisne, con i suoi 6000 abitanti, offre spunti
curiosi.

Per arrivare a Muisne esisteranno indubbiamente numerose combinazioni di percorsi. In generale, però, da dove si è (possibilmente in Sudamerica e possibilmente in Ecuador), occorre spostarsi sulla costa e beccare un bus che vada verso nord (questo ipotizzando di partire da Quito). Ovviamente, tra questi, non tutti fermano a Muisne e non a tutte le ore. Perciò, se vi capitasse di andare a trovare un amico a Muisne, o qualora abbiate fissato con lui di trovarvi un venerdi sera nella vicina, riminesca Atacames, sarà meglio che non dimentichiate di prenotare per tempo un pasaje sul bus giusto, perché non è detto che l’amico in questione sia uno dei diavoli dell’isola e soprattutto che disponga di un furgone col quale possa venire a raccattare voi e la vostra enorme mochilla nel terminal nel quale dopo un lungo girovagare siete, in un modo o nell’altro andati a finire.

Giungere a Muisne, poi, non è decisa
mente come giungere a Firenze, o a Roma, o a Madrid. Giungere a Muisne è sorprendente, proprio nel senso che ti riserva una sorpresa. Mi spiego. Non so se sia comune, ma una delle sensazioni più frequenti che mi colgono mentre sono in giro è quella di desiderare che il viaggio che mi conduce a una qualunque meta, non finisca mai. All’inizio, per i primi tre-dieci minuti, vorrei arrivare subito. Poi mi abituo, mi acostumbro all’auto, all’aereo, al camminare, al seggiolino del treno, alla sella del cavallo, al dorso del ciuco ed è seccante interrompere l’equilibrio raggiunto. Ma quando arrivi a Firenze, a Roma, o a Madrid sei arrivato e basta, prendere o lasciare.

A
l contrario, la fine di un viaggio per Muisne, non è come tutte le altre fini. Arrivi al muelle ed il tuo anfitrione ti dice: “Siamo arrivati”, come nella migliore delle tradizioni. E come nella migliore delle tradizioni già inizi a infastidirti. Ma è question d’attimi, perché garantisco che è un vero stupore vederlo caricarsi sulle spalle il nostro zaino e scendere degli scalini di pietra che arrivano diritti diritti al pelo dell’acqua, dove sta ormeggiata alla bell’e meglio una lancha, una piccola barchetta a motore accortamente arredata con tante seggioline di plastica (c’era una casa tanto carina senza soffitta senza cucina) che svolge l’egregio servigio di trasportare la gente da una parte all’altra del braccio di fiume-mare che separa le due parti della cittadina.

Ebbene sì. Perché al di qua del molo si è a Muisne, ma pure al di là si è a Muisne.
Così il tuo viaggio non finisce, o almeno non immediatamente, ed è come un bis a un concerto: pensi che Guccini se ne sia davvero andato ed invece eccolo che esce e riattacca con “La locomotiva”. Ecco sì. Proprio così. Prendi la lancha ed è come se la band tornasse sul palco.

A Muisne sembra che non ci sia niente. Una manciata di negozietti e bazar, niente auto, niente cinema, a volte niente corrente, a volte niente acqua.

Ma a Muisne ci sono molti grilli, ci sono i cavalli, ci sono le rane, i gechi, le mucche che pascolano sulla spiaggia e ci sono uccellini col petto e la testa così rossi, ma così rossi, che nemmeno Marx si sarebbe spinto a tanto.

A Muisne la notte ci si addormenta mentre le onde Pacifiche continuano a fare festa e al risveglio puoi andare anche a parlarci, con l’Oceano. E spesso questi risponde. Capita che ti rida in faccia sguaiato, ma a volte risponde con maggior cortesia e saggezza e ti fa sentire un vero privilegiato.

A Muisne, a onor del vero, per ogni abitante esistono anche un migliaio di zanzare assassine, più instancabili e metodiche del mare, che servono per porre un limite agli eccessi di romanticismo e
pensiero che la isla maldida può causare. Tutto, come si vede, ha un suo equilibrio, in natura.

A Muisne, poi, c’era una volta il manglar. O meglio, c’era una volta molto più manglar di quanto ce ne sia ora.

Il
manglar, per capirci, è quella cosa di cui si parla senza sapere all’incirca fino alle scuole medie, quando gli insegnanti di geografia tentano a tutti i costi di imprimerci nella mente parole strane, senza avere neanche loro, nel 90% dei casi, la più pallida idea di ciò a cui si stiano riferendo: tundra, taiga, steppa e, appunto il manglar, le mangrovie.

Fino a una settimana fa le mie conoscenze in materia di mangrovie avrebbero giustificato la scelta del nostro vulcanico ministro Gelmini (la quale, visto che non siamo ancora abbastanza ignoranti ha da poco lanciato la proposta di abolire l’insegnamento della geografia), ma ora che l’ho scoperto sono desiderosa di gridare al mondo che le mangrovie esistono davvero (proprio come gli incas e le Ande) e questo sulla destra è più o meno il loro fantomatico volto.

Il manglar costituisce un ecosistema unico, caratterizzato da una grande biodiversità. Le radici aeree delle piante formano un ambiente nel quale convivono uccelli, pesci, molluschi, crostacei, api, uccelli, mammiferi, rettili e circa 70 specie differenti di alberi ed arbusti tropicali e subtropicali. La pesca artigianale nel manglar è la fonte principale di proteine per la popolazione costiera (e, tra l’altro, la fonte più importante di approvvigionamento di pesce per l’intero Ecuador) e da esso si ricavano tutta una serie di prodotti che contribuiscono ad accrescerne la centralità non solo ecologica, ma anche economica, per le popolazioni che su di esso fanno affidamento:
  • Combustibili (legna, carbone, alcool)
  • Materiale da costruzione
  • Strumenti per la pesca
  • Foraggio e concimi naturali per allevamento e agricoltura
  • Carta
  • Zucchero
  • Fibre tessili e coloranti naturali
Il manglar, inoltre, protegge le coste dall’erosione, dagli uragani e dalle tormente e gioca un ruolo decisivo nell’attenuazione degli impatti de El Niño. Preserva inoltre i terreni agricoli dalla salinizzazione, agendo da filtro sulle acque marine.

Il problema con le mangrovie muisneñe – ed ho il vago sospetto che lo stesso capiti anche altrove – si chiama camaroneras (le piscine dove i camarones sono allevati). Quello del camaron in Ecuador è un grosso business. In generale, nel mondo è uno dei più redditizi, visto che il profitto medio netto che si trae da un investimento di 40 dollari nel settore è di circa 400 dollari. Ma il punto centrale della questione è che dove ci sono le camaroneras non c’è il manglar.

Gli USA sono i primi importatori mondiali del camaron ecuatoriano: qui il consumo negli ultimi anni è passato da circa 0,2 libbre a persona a più di 3 ed è tuttora in costante aumento. L’Unione Europa è il secondo consumatore, sostenuto principalmente dalla domanda di Spagna, Francia, Italia e Olanda: il 20,5% delle esportazioni dall’Ecuador all’UE sono di camarones. Ma, strano ma vero, non è propriamente la popolazione locale a beneficiare dello sfruttamento del settore. Innanzitutto, le industrie camaroneras sono straniere, ragion per cui i profitti aggirano l’Ecuador e se ne vanno altrove; in secondo luogo, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la presenza di queste industrie non crea posti di lavoro per la popolazione locale e qualora questo capiti, le condizioni lavorative sono decisamente pessime. Ad esempio, i pochi locali impiegati nella fase di lavorazione del camaron (pare che la prassi sia di assumere lavoratori stranieri, per aggirare la scarsa fiducia riposta nei confronti della popolazione locale) lavorano fino a 18 ore al giorno, in piedi, in aree con temperature artificialmente mantenute molto basse, costretti a manipolare costantemente disinfettanti chimici come il cloro. Oltre a questo, si calcola che una camaronera possa offrire fino a un massimo di 10 posti di lavoro per ettaro. Di contro, un ettaro di manglar può provvedere al sostentamento di circa 100 persone. La distruzione delle mangrovie per la costruzione di piscinas camaroneras iniziò in Ecuador una trentina di anni fa. Secondo dati dell’ Instituto Ecuatoriano Forestal y de Áreas Naturales, nel gennaio 2000 in Ecuador le camaroneras ocucpavano un’area di 207.000 ettari. Di queste, solo 50.454 operavano legalmente.

Nella provincia di Esmeraldas, dove sta anche Muisne, dove si trovano i manglar meglio conservati dell’Ecuador e dove sono state identificate le specie più alte del mondo, più del 90% delle piscine camaroneras installate sono illegali e negli ultimi venti anni la loro presenza nella regione è più che raddoppiata. A Muisne e dintorni l’industria camaronera ha distrutto circa l’84% del manglar, così che dei 20.098 ettari presenti nel 2003 ne sopravvivono oggi appena 3.173, con tutte le conseguenze ecologiche ed economiche del caso.


Per questo a Muisne può succedere che almuerzando sul muelle con un rico cebiche de mariscos (molluschi crudi, conditi solo con limone ed erbette: roba che a tornare sulle Ande a magnà ’r topo c’è da rimanerci secchi) passi qualche faccia di bronzo che con fare sarcastico commenti ai locali:
«Beh, ma allora li mangiate pure voi i camarones», dimentico del fatto che i muisneni di camarones si cibavano anche prima dell’arrivo dei geniali imprenditori e che questa proiezione sui mercati internazionali a loro non ha portato nient’altro che impoverimento.

A Muisne hanno iniziato a battersi in difesa del manglar tanti anni fa e il diavolo nero era tra i maggiori fautori della lotta. Ad oggi, mi ha spiegato il diavolo bianco, la battaglia per il manglar è pressoché conclusa e per ora i “cattivi” hanno avuto la meglio, ma non è ancora tempo per riposarsi, o rassegnarsi.


L’altro pericolo che minaccia l’ecosistema muisneño si chiama eucalipto ed anche qui entrano in gioco meccanismi interessanti.

Infatti a Muisne NON c’era una volta l’eucalipto.

Come ci insegna wikipedia, infatti, l’eucalipto è una pianta originaria dell’Oceania, trapiantata nel corso dei secoli in vari altri angoli del pianeta per ragioni di natura diversa.
In Ecuador l’eucalipto giunse all’incirca a metà del XIX secolo, ma fu solo verso la fine dello scorso millennio che iniziò nel paese il suo sfruttamento sistematico, a dispetto del fatto che sia stato dimostrato che la coltivazione intensiva di eucalipti risulti nociva per molti ecosistemi, causando tra l’altro impoverimento dei suoli, riduzione della biodiversità ed esaurimento dei bacini acquiferi.

In particolare, verso il 2000, un simpatico consorzio di società giapponesi, cilene e americane decise che era giunto il momento di tentare il colpaccio e costituì la EUCAPACIFIC S.A., tramite la quale fu lanciato un ambizioso progetto da 50 milioni di dollari che prevedeva la forestazione ad eucalipti in sei anni di un’area di 10.500 ettari nella Provincia di Esmeraldas (dove si trova anche Muisne) ed il suo conseguente sfruttamento per almeno i successivi 20 anni.

Sebbene l’obiettivo manifesto di un’operazione di queste dimensioni lasci poco spazio all’immaginazione e sia abbastanza chiaro che lo scopo sia quello di realizzare profitti dalla vendita di legname e carta, le dichiarazioni ufficiali di EUCAPACIFIC, negli ultimi anni sono state di tutt’altro stampo. Secondo le stesse, alla base del progetto stavano idee quali la conservazione dei boschi nativi, la promozione di un’idea innovativa di “simbiosi tra il progresso sociale ed economico e la preservazione del medio ambiente”, la riduzione dei livelli di CO2 presenti nell’atmosfera, la diffusione di pratiche di riforestazione responsabile e appropriata…

Ora però wikipedia corre nuovamente in nostro aiuto, dicendoci che la parola “eucalipto” deriva dal greco "εὖ καλύπτω", che significa “nascondere bene”. E, come direbbe qualcuno, la domanda sorge spontanea: cosa vive alle spalle di questa missione internazionale ad alto impatto ecologico?


La EUCAPACIFIC in effetti non ha mai negato che in Ecuador e specialmente nella regione di Esmeraldas fosse stata da tempo individuata l’opportunità di ottenere rapidamente una grande produzione di legname (le specie scelte per l’operazione di riforestazione
crescono infatti in circa circa 6-7 anni e permettono di ottenere albero alti in media una trentina di metri e con un tronco dal diametro di 20-25 cm), permettendo di passare alla fase di sfruttamento del territorio in tempi relativamente brevi.

Oltre a questo, tre delle quattro imprese che costituirono l’EUCAPACIFIC – Mitsubishi Paper Mills (Giappone), Expoforestal (Cile e USA) e Sumitomo Corporation (Giappone) – avevano il chiaro e duplice obiettivo di accaparrarsi una fonte diretta di rifornimento di legname, riducendo al minimo i costi ed innalzando i profitti nel settore, già peraltro piuttosto elevati.


L’altra società, la Electric Power Development (Giappone), perseguiva dal canto suo obiettivi lievemente diversi. Attraverso il progetto, infatti, la compagnia sperava di potere onorare gli obblighi assunti c
on il Protocollo di Kyoto del 1997, con il quale varie aziende si sono impegnate (pena il pagamento di sanzioni piuttosto salate) a ridurre le emissioni di anidride carbonica generate dalla loro attività. Una delle misure che il Protocollo propone per ottemperare a questo impegno è appunto la riforestazione (sebbene nella comunità scientifica non vi sia accordo rispetto all’utilità di questa pratica per la riduzione del tasso di CO2 nell’atmosfera), così che alla EPD hanno imparato, come si dice, a fare “di necessità virtù”, finendo col trarre profitto dalla potenziale punizione kyotesca.

Oltre a questo c’è da dire che i nuovi eucalipti piantati sono trattati con concimi chimici e vi è una certa probabilità che le specie utilizzate siano geneticamente modificate, visti gli spettacolari tempi di crescita (e visto l’impegno della Mitsubishi Pape
r Mills nel settore). Così, parafrasando il segretario del World Rainforest Movement: «Invece di affrontare la questione in maniera realista – che condurrebbe all’incremento di una gestione sostenibile del patrimonio forestale, alla tutela dei boschi secondari e al rispetto delle comunità e delle popolazioni indigene che vivono in questi territori – i governi del Nord e le multinazionali stanno semplicemente cercadno di “colorare di verde” il loro volto».

Tornando al nostro piccolo mondo antico, quello dell’isola in due fasi, delle fini infinite, del manglar e dei camarones, l’obiettivo della nuova battaglia è di riuscire a compiere un’operazione di riforestazione alternativa, con tecniche e mezzi più adeguati, che restituisca alla piccola Muisne il bosco umido tropicale di cui è stata depredata negli anni.

Scriveva Terzani: «Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano, quanti vulcani esplodono e quanta, quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa! Eppure, se non c'è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti! Sofferenze senza conseguenza, senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta».

E mai come a Muisne ho sentito risuonarmi in testa queste parole. Chissà quante Muisne esistono, in giro per il mondo. E nessuno che ne racconta. Chissà quanti uccellini multicolore. Chissà quanti concerti notturni di rane e grilli e maree. Chissà quanti fratelli del manglar c’erano un tempo ed oggi non ci sono più. E chissà quanti diavoli negri e bianchi se ne stanno ai quattro angoli della Terra a sfidare l’ordine disordinato sul quale noialtri riposiamo placidi e spesso nemmeno troppo ignari.

mercoledì 6 gennaio 2010

Natale

Il Natale a Cusco è strano. Ci sono i panettoni, ma non c'è odore di Natale.
Ci sono i Babbi Natali impiccati alle terrazze, ma non ti senti osservato e non
ti viene voglia di essere più buono. Ci sono gli alberi di Natale, ma hanno le palle rosse della Coca Cola, alla quale possiamo anche lasciare il patrocinio sul rosso Babbo, ma non sulle palle, delle quali, di grazia, siamo provvisti da molto prima che arrivasse lei. A Cusco il Natale è strano perchè non c'è la messa di mezzanotte con le campane di San Martino a Brozzi che sgambettano felici, ma ce ne sono diverse nel corso del pomeriggio e alle campane nessuno fa caso.
A Cusco il Natale è strano perchè il 24 trovi gente in strada fino a tardi, mentre uno degli italici fenomeni urbani che più mi sconvolge ha luogo proprio durante il pomeriggio della Vigilia e consiste nello svuotamento delle strade, delle autostrade, delle Statali, dei Viuzzi, delle calli, dei campielli, dei caruggi, dei negozi, degli uffici, di tutto, in un intervallo che va dalle 15 alle 18. Le città e il loro vuoto pneumatico. Da noi a Natale sembra che tutti abbiano una casa e una famiglia dove correre. Da noi, più in generale, a Natale si raccontano un sacco di frottole e le orecchie, rintontite dal rumore delle campane delle renne volanti, e gli occhi, abbagliati dalle carte da pacchi multicolori e dalle vetrine piene di brillantini e luci, sono particolarmente propensi a credere a tutto ciò che odono e vedono. Senza porsi troppe domande.
A Cusco, invece, dicevamo, niente fughe, niente corse, niente vu
oto, niente. A Cusco il 24 è piuttosto un giorno così strano che inizia il 23.
Il 23 pomeriggio, infatti, partendo da Marcavalle, nella zona sudest della città, a circa 10 minuti di auto dal centro, trovare un taxi che ti porti in Plaza de Armas è un'impresa. Trovarne uno alla tariffa standard (3 soles), è pura utopia. Anche se hai MasterCard nessuno si ferma e quando trovi un santo che ti fa'r favore di portarti almeno nei paraggi non sai che in cambio ti verrà il cagotto per il tuo compleanno. Ma questa è un'altra storia.
Il 23 pomeriggio i taxi non ti portano in centro perchè è tutto chiuso. Gruppetti di uomini e donne
armati di pennello e vernice disegnano piccoli rettangoli sul selciato della Plaza de Armas per assegnare - secondo non si sa bene quale criterio - gli spazi per il mercato dell'indomani.
Nel frattempo quest'ultimo arriva e fa capolino nella piazza. Esattamente. Il mercato del 24 arriva a Cusco il 23. Scende dalle montagne, arriva dalla valle, ha i piedi già sporchi e graffiati per il viaggio e porta sulle spalle carichi di bambini silenziosi e tupperware pieni di zuppa, pannocchie, mais tostato in varie forme, qualche coperta per la notte e ovviamente, chissà dove, la merce da piazzare l'indomani.
Il mercato della Vigilia della Plaza de Armas è una delle massime attrazioni navideñe del Cusco. I turisti e i cusqueñi stessi ne rimangono affascinati e il più delle volte non permettono che alle loro grinfie sfugga un presepino in stile Arequipeño (buffe statuine cicciotte ove al bue e all'asino sono spesso sostituiti i più caratteristici lama e alpaca), erbette di vario genere per ricreare fantasiose vegetazioni nei vari Nascimientos, candele, fuochi d'artificio, matasuegras (da queste parti i nostri raudi si chiamano "ammazza suocere"...) e un immancabile sacchetto di Palo Santo, inquietante incenso venduto sotto forma di tronchetti il cui fumo tipicamente olezzoso invade le strade e gli interni della città durante le cerimonie natalizie.
Insomma, per un simile evento è necessaria una preparazione adeguata e per i mercanti che arrivano da fuori non è il caso di tardare ed è più sicuro giungere in città la sera prima. La plaza de Armas, dicevamo, è però chiusa. Perciò, coloro che arrivano dalle campagne, con i loro carichi di erbette, bambole, paletti, debbono accostarsi ai lati della piazza, accoccolarsi placidamente da qualche parte (quando va bene sotto l'ultimo angolo libero di un portico non perlustrato da qualche zelante poliziotto manganellato) e attendere, sotto gli occhi curiosi e maleducati dei passanti.
E se l'attesa è per sua natura fastidiosa, lo è assai di più quella spesa nella notte andina, a 3500 metri sul livello del mare, durante quella che er Califfo commenterebbe "e la chiamano estate", perchè di estivo possiede veramente solo il nome all'anagrafe. A Cusco il Natale è strano perchè in conformità con ogni altra stranezza ti aspetteresti di passarlo almeno in compagnia del sole verticale equatoriano, mentre invece fa freddo quanto in Italia, epporcamiseriaporca.
E c'è chi la passa per strada. Questa gelida e poco romantica notte andina. No, no. Nessun paseo tra i locali alla moda. Nessun giro di mohito a Los 7 Angelitos, nessuna capatina al Roots o al Mama Africa. Nessuna fricchettonata yankee per chi aspetta la vigilia tra le braccia delle Ande. Niente. Solo ghiaccio e poco sonno. Solo silenzio e attesa. Attesa e speranza. Spero. Ma poi, mi dico, dietro agli occhi di chi ha freddo non è così facile leggere. Le sue speranze non sono le tue e le attese, quando mai coincideranno?
C'è di buono però che la notte passa veloce nel Cusco ed il mercato si leva presto per sistemarsi in questa giornata di grazia, fatica e guadagni, in questa puntata di una routine che quando ci passi in mezzo sembra così esotica, ma solo perchè hai ancora il naso tappato dai Natali appena trascorsi e non riesci a contemplare che questa possa essere la normalità. Una normalità.
Il mercato si leva ed inizia finalmente a fare il suo dovere, a svolgere il suo compito di crocevia, di grancassa, di comedor, di luogo di incontri e di scambi, di sorrisi e delusioni, comincia a strillare e non la smette più, si accendono i pali santi, l'incenso pervade l'aria già rarefatta dall'indecente altura, i "mami sin compromiso" si levano al cielo e sono quasi un grido, sono quasi una liberazione, quasi un Inti Raimi anticipato, una festa del dio sole che dopo la notte trascorsa all'addiaccio benedice allo stesso modo i buoni di volontà e i vaghi, gli speranzosi e gli abitudinari, i rassegnati ed i cretini, gli affamati e gli assonnati, i quechua e i gringos, i cretini e i furbastri. Tutti là nel medesimo turbine, a compiere questo lungo giro di vigilia, tutti insieme a non sentirsi più soli nè lontani, a ricordare e a scacciare i ricordi, a ridere ed asciugare qualche lacrima truffaldina, ad ottemperare agli impegni per gli amici segreti, ad aspettare un letto, o una cena, o un abbraccio, o una stufa, o 20 soles soltanto da mettere in più nella saccoccia, che dopo una sfacchinata simile, parrebbe il minimo.
Con il giorno, poi, anche la lunga festa della vigilia si ritira di mala voglia e qualche ora di apparente respiro la concede anche la strana atmosfera della Navidad cusqueña. Ma è una falsa tregua, poiché il vero tripudio sta ribollendo nelle viscere delle case, pronto ad esplodere un'oretta prima della mezzanotte e a dare finalmente una collocazione nella mondanità dell'evento navideño anche ai fantomatici matasuegras ed ai loro parenti d'artificio.
Così, a un'ora dalla mezzanotte Cusco prende fuoco: ogni barrio inizia a splendere di luce propria, la città riprende a strillare come prima e più di prima, mentre giochi pirotecnici degni della più fastosa corte mandarina illuminano ciascuno dei monti che avvolgono l'antica capitale inca. Fino a esaurimento scorte, fino a che razzi e matasuegra non hanno matato abbastanza, fino a che la lunga maratona natalizia non è stata abbastanza lunga da potersi dire conclusa e si può finalmente tirare il fiato su questa nuova, ordinaria e folle feliz Navidad.

mercoledì 23 dicembre 2009

Voce del verbo And-are

Quando da piccola mi immergevo nelle pagine del lacrimoso libro Cuore, mi lasciavo sempre trascinare dalle stesse storie. Tra le preferite, quella del malvagio Franti (“e l’infame sorrise”), o “L’uomo dagli occhi di vetro”, fino ad arrivare al Piccolo Scrivano Fiorentino, per ovvie ragioni campanilistiche. Ma tra tutte, “Dagli Appennini alle Ande” era quella che mi attirava meno… Era innanzitutto molto più lunga di altre ed io, si sa, sono sempre stata ignorante. Inoltre, mi pareva davvero troppo strappalacrime, anche per un polpettaro come il signor De Amicis. Infine, soprattutto, raccontava di un mondo che non mi apparteneva del tutto, era una specie di romanzo di fantascienza ed io la trilogia di Asimov ce l’ho ancora intonsa nella mia libreria, placidamente avvolta nella sua psichedelica copertina rigida. Certo, l’Appennino ce l’avevo dentro, non sapevo

bene dove e come fosse, ma comunque sapevo che di tanto in tanto su questo fantomatico Appennino ci si andava, mi avevano raccontato che era fratello delle Alpi e col tempo era divenuto quasi meccanico, dopo le prime lezioni di geografia, disegnare una striscia marrone in mezzo allo stivale… ma le Ande, signori… le Ande… CHE COSA DIAVOLO erano, le ANDE?!? Qualcosa tipo la Luna? Luoghi lontani anni-luce e dispersi nelle galassie, probabilmente disabitati, o colonizzati da forme di vita aliena delle quali era più rassicurante non conoscere niente? O più semplicemente costituivano un sinonimo dotto di “Monculi Soprempoli”, immaginaria località della tradizione vernacoliera toscana, creata per indicare un posto tanto sperduto quanto inesistente?

Ecco, sì. Questo pensavo. Che le Ande svolgessero una funzione più che altro lessicale, che chissà come fossero state relegate a modo di dire dopo qualche oscuro accadimento storico e che col tempo fossero diventate così, parenti strette delle Calende Greche, sulle quali in fin dei conti non valeva la pena indagare oltre.

Invece, nella sorpresa generale, sono qui a dirvi che ho scoperto che le Ande, queste sconosciute, ci sono! Esistono sul serio!

E non hanno niente di irreale, sebbene siano spesso teatro di situazioni surreali.

Insieme alle Ande, navigavano nei mari della mia memoria altri loschi figuri. Quelli che alle elementari comparivano nel sussidiario qualche tempo dopo i dinosauri, ma solo come accenno, ed ai quali di solito era dedicata una paginetta grigia di approfondimento dalle parti del 1500, peraltro decisamente in penombra rispetto alla lucente compagnia che li affiancava: dal signor Colombo all’Isabella di Castiglia, fino ad arrivare alle valenti caravelle (delle quali, pure, se ci avessero mostrato un’immagine, di tanto in tanto, oggi avrei un’idea più chiara senza dover ricorrere a Wikipedia). Nel box grigio, dunque, c’erano loro. Gli indigeni. Le popolazioni native. I maya, gli aztechi e gli incas. Il Dai, il Picchia, il Mena. Proprio loro. Quelli che facevano le piramidi a scalini. Quelli che sacrificavano gli esseri umani agli dei (anche qui, cercavano di farci stupire… ma ex-post, avrei scoperto essere pratica piuttosto diffusa anche in luoghi meno esotici). Quelli che facevano la guerra a modino. Quelli che, allo stesso modo delle Ande, relegavi a un canto della memoria, perché era molto più facile ricordarsi del Genovese e della bella regina di Spagna, perché la parola sterminio non era simpatica per dei ragazzini e perché in fondo, chi se ne frega! Quella notte Colombo aveva scoperto l’America e di lì tutto incominciò! I videogame, i microonde, il cinema, gli aerei, i computer, internet. Tutto opera di Colombo. E quei tre gatti? Bah, probabilmente un costrutto linguistico pure loro, che se ne restassero nel loro box.

E invece... Non c’è trucco non c’è inganno. Esistevano pure loro. Oddio, sui maya e sugli aztechi devo ancora indagare, ma tutto questo, a meno che il presidente Garcia non abbia individuato nella costruzione di falsi siti archeologici una valida via d’uscita dalla crisi globale, pare essere proprio opera degli incas. Questo, che pare un anfiteatro, veniva in realtà utilizzato per effettuare colture sperimentali: ogni livello è caratterizzato da un differente microclima e nel centro pare si concentri un’energia particolare (così particolare che da quando ci sono stata, l’orticaria non mi ha mai più abbandonata).

Qua sotto, invece, i resti di Sacsayhuamán, di cui ancora non si è ben compresa la funzione: forse una fortezza, forse un tempio. Resta il fatto che gli spagnoli ne sottrassero le pietre megalitiche e ci fecero le loro case. Belline, per carità, niente da dire. L’architettura coloniale ha un suo perché e la trovo pure molto romantica, ché mi fa sentire in un libro di Marcela Serrano… ma insomma, dico io, di sassi ne è pieno il mondo, mò proprio dalla fortezza te li devi anna’ a pija’?!?

Ed è solo un esempio. Pare che l’abbiano fatta davvero grossa Pizarro i suoi. Così grossa che pare anche che nessuno si stupisca più alle parole dell’inno nazionale peruviano, quando promettono che "nuestros brazos, hasta hoy desarmados, estén siempre cebando el cañón, que algún día las playas de Iberia sentirán de su estruendo el terror". Ma questa è un’altra storia…